Il maestro Pasquale Ancillotti

Nato a Cardoso il 19/10/1905, fu un grande amatore della montagna, in special modo di quella versiliese, dove passò l'adolescenza facendo il pastore e la prima giovinezza il portatore a spalla di scalini di macigno e di carbone da dietro il monte Pania e il monte Forato. Passò poi a fare il manovale in cava e infine l'imbianchino; fu subito ricercato per i suoi dipinti, fiori, uccelli e altri animali che lasciava a casa. La volpe non mancava mai, generalmente campeggiava sulla cappa del camino. Cominciò poi a fare l'apprendista smodellatore permettendosi, con la paga giornaliera, un magro pasto al giorno, dormendo in luoghi di fortuna. Aveva 23 anni quando lesse sopra un giornale la reclame di una scuola privata fiorentina che anche senza avere seguito un corso regolare di studi si poteva ottenere un diploma di geometra, odi ragioniere, odi maestro di scuola elementare.Prese subito la decisione di frequentare questa scuola.Vendette i propri attrezzi da lavoro per racimolare un piccolo gruzzolo. Prese poi la sua pagella di quarta elementare e partì con entusiasmo per Firenze.

 

Lavorava saltuariamente qua e là e dormiva nella sala d'aspetto della stazione. Una sera all'imbrunire capitò alla porta del convento dei Domenicani di Fiesole, dove fu accolto e rifocillato; lì vi passò anche la notte. Al mattino ebbe indicazioni preziose come quella che i frati Francescani preparavano ogni giorno da mangiare per i poveri, e che nel quartiere di S. Spirito in Firenze c'era un dormitorio pubblico a pagamento, con 50 centesimi si poteva usufruire di un letto con lenzuola e coperte. Approfittò subito dell'occasione dato che cominciava la brutta stagione. Andò avanti cosi per qualche settimana, si trovò mescolato fra gente di tutte le risme. Una sera rimase sprovvisto anche dei 50 centesimi, allora si diresse verso una chiesetta nei pressi di Forte Belvedere e arrivatovi si accoccolò in un angolo sotto il loggiato; quando uscì dalla chiesa, il gruppo di giovani che cantava all'interno, videro Pasquale e avvisarono il sacerdote e questo lo invitò ad andarsene, nonostante le sue spiegazioni, altrimenti avrebbe chiamato i carabinieri.

Dopo un lungo silenzio, si rimise in cammino verso la città. Erano i primi di dicembre, quando scoperse la chiesa dei Gesuiti che in quel periodo vi celebravano delle funzioni religiose che si protraevano fino a tarda ora, cominciò ad andare in quel luogo più per dormire che per pregare. Una sera, uscito dalla chiesa, per strada fu affiancato da un signore (che ancora oggi rimane un mistero chi fosse e come facesse a sapere che lui cercava lavoro) che messogli una mano sulla spalla come un vecchio amico, gli disse di presentarsi ad un certo indirizzo perché li avevano bisogno di una persona tutto fare. Come era apparso si dileguò a passo svelto nella notte verso il centro. Al mattino si recò dove gli era stato indicato: era il Collegio Domengè Rossi. Fatte le dovute presentazioni, fu assunto. Il lavoro da svolgere gli lasciava un ampio di tempo libero, così poteva dedicarsi allo studio. Non fu una cosa facile.

Passarono più di tre anni, infine si sentì pronto, raccolse i suoi libri, preparò la valigia e partì per Perugia dove superati gli esami conseguì il diploma di maestro elementare. Dedicò poi il suo tempo all'insegnamento, alla vita sociale, e alle escursioni sulle montagne versiliesi che disegnò e dipinse in numerosi quadri. Scrisse anche un libro di racconti e poesie citando fatti veramente accaduti e parlando di persone di cui non dimenticò mai l'impronta nella sua vita.

Questa presentazione è stata approvata dai parenti di Pasquale.



Il Maestro racconta:

Cammino duro sotto le stelle

(ricordando i portatori di carbone di un tempo)


Cominciava l'estate e la vita, in Alta Versilia, diventava tutto un fervore di agresti lavori, di faccende nei campi e intorno alle bestie. Il suono dell'Ave Maria dell'alba dava ogni giorno l'avvio: un avvio sempre fresco come la rugiada che il sole, non appena si affacciava al crinale dei monti, iridava per qualche momento e poi faceva sparire. Si usciva dal chiuso delle rustiche case, si sbucava dai vicoli a saliscendi, stretti e tortuosi, su cui i gerani facevano scendere modeste cascatelle di fiori. Appena fuori dal paese ci veniva incontro l'aria delle selve e sapor di mentastri e di timo. Dalla Pania al Matanna si dipanava il profilo bizzarro dei monti: incisione di mano sapiente sulla lastra luminosa del cielo. Al di sotto un velo grigio plumbeo andava via via stemperandosi di rosa prima di lasciare emergere spuntoni di roccia e dorsi di colli che s'accendevano poi, al bacio del sole, come ceri lungo i ripiani di un immenso altare parato e ornato a festa solenne. E festa era davvero, per i montanari, quando i mattini iniziavano cosi ed essi si apprestavano, con gioia, a salire verso l'Alpe. Non tutti però aspettavano di partire a quell'ora per il quotidiano lavoro: i più validi e più robusti di spalle e svelti di gambe eran partiti da un pezzo e il loro incontro con l'aurora e con l'alba avveniva fra boschi e rupi, magari dinnanzi all'immensa distesa del mare o all'ondulata catena dell'Appennino Tosco-Emiliano. L'ora della partenza dipendeva, naturalmente, dalla lunghezza del cammino da percorrere e dal tempo, quindi, che avrebbe dovuto esservi impiegato. Potevano essere le due o le tre di notte, o anche prima, quando più scura era la valle e il cielo gremito di stelle. Proprio la posizione di queste, in rapporto fra loro o con questa o quella cima di monte, segnava ai viandanti notturni l'ora più o meno precisa. E non era il caso, lungo il tragitto, che sulle stelle cadesse il discorso e i giovani imparassero dagli anziani nozioni spicciole di astronomia. Era il tempo delle carbonaie.

L'andare al carbone era quindi un lavoro stagionale e vi prendevano parte uomini e donne, ragazzi più o meno grandi. C'era pure qualche anzianissimo che camminava sotto la pesante soma non solo la notte ma anche gran parte del giorno, come un certo Nicolone. Ognuno era munito di bardello: un sacco riempito in parte di fieno si che facesse cuscino sulle spalle onde fosse più agevole portare il carico che, in quanto a pesantezza, ciascuno lo aggiustava secondo la forza che aveva di portarlo. Ma a volte il carico veniva sottovalutato nella manovra o prova del soppeso e allora ci se ne accorgeva lungo la strada quando l'ansante arrancare, sia in salita che in discesa, diventava estremamente faticoso. Dura vita quella del portatore a spalla, ma dura oltremodo perché fatta in gran parte di notte. E non sempre c'erano le stelle a guardarci, ma nembi di nebbia, che il vento ti spingeva contro a schiaffeggiarti. E se con il nembo veniva anche la pioggia, erano staffilate gelide sulle parti di pelle che restavano scoperte. E l'acqua ti mollava dalla testa ai piedi, i quali finivano per sguazzare nei tarponi, una specie di ciocie fatte con pezzi e pezzi di stracci trapuntati. Portavamo, legato alla vita, il nostro fagotto contenente la colazione: pochissimo pane, polenta o ciacci assai, di companatico appena l'odore. C'era chi aveva, in verità, pane e la sua brava bottiglia di latte, le polpette fatte con uova ,patate, l'odore dell'aglio e del prezzemolo, pane e formaggio grattugiati. Erano proprio una bontà. Non mancava chi faceva colazione a pane e salsiccia, accompagnati da una bottiglietta di vino, innaffiato a dismisura con acqua fresca. Certe colazioni eran più buone e appetitose che quelle del Re. E non c'era da dire che regnasse l'avarizia, chè spesso, chi aveva di più e di meglio ne faceva parte a chi di più non poteva avere. La colazione veniva consumata sulla via del ritorno a posatoi fissi: Mosceta per chi veniva da dietro la Pania, in cima alle selve del Cardoso per chi veniva da dietro il Monte Forato. Generalmente i posatoi erano situati presso una marginetta, un ruscello o una fonte viva. Fermandosi a una marginetta c'era sempre qualcuno che guidava la recita di una preghiera. No, non ci sentivamo nè poveri cani nè miserabili, ma ricchi di umanità gli uni verso gli altri. Nella sosta, che si prolungava assai perché il percorso più aspro era ormai passato, c'era chi ragguagliava sugli avvenimenti del paese, sulle vicende dolci o amare di questo o di quello, con umorismo a volte frizzante, a volte con tono dimesso o dolente, secondo i casi. L'ultima parte del cammino riprendeva e sembrava che gambe, anima e core avessero acquistato più lena ,più forza invece di diminuirla, in vista ormai, anche se alquanto lontano, del traguardo finale. Nel cielo splendeva ora il sole e nella valle si riversava il caldo infocato dell'estate.